Gli invasi dell'Emila Romagna? Esistono sulla carta: scoperta sconcertante



 Le casse di espansione, le aree golenali, i bacini di laminazione e sfogo nel 2018 salvarono dal disastro il Veneto. Forse l’Emilia Romagna paga in questi giorni una sottovalutazione dei rischi. È sempre bene dire “forse” quando ci sono tanti morti, decine di migliaia di sfollati e miliardi (?) di danni a cose, persone e aziende. I conti, brutali, quanto freddi però vanno fatti perché poi ogni volta corriamo a coprire un’emergenza, salvo dimenticarcene per rincorrere la successiva. Ricordate la disastrosa tempesta Vaia che colpì le montagne del Nordest nel 2018? I venti document spararono al suolo 715 millimetri di acqua in poco più di 70 ore. Andarono lunghi 42 milioni di alberi (anche i tronchi pregiati da cui i maestri liutai da generazioni tirano fuori i famosi violini Stradivari).

 

 

PIANI DIVERSI
Settecento millimetri d’acqua in poco meno di 3 giorni furono devastanti per il Nord Est. Ma l’onda di piena venne contenuta. Non riversando danni a valle oltre al disastro provocato in vetta. I miliardi di litri d’acqua vennero letteralmente ingoiati dai bacini di contenimento. Questo perché a seguito di un’altra alluvione (quella del 2010), la Regione Veneto aveva imparato la lezione. E chiesto miliardi di fondi per tappezzare il territorio di vasche d’emergenza dove far confluire eventuali ondate di piena. Con più del doppio delle precipitazioni allora non ci furono allagamenti paragonabili a quelli dell’Emilia Romagna di questi giorni. La bomba di vento e acqua che nel 2010 flagellò Padovano e Vicentino mise in moto un piano di grandi opere. Tredici anni fa finirono sott’acqua – con tutti i danni che oggi vediamo ripetuti nella Bassa – la bellezza di 140 chilometri quadrati. Nel 2010 finirono a mollo 130 comuni.

Poi si corse ai ripari e vennero attrezzati vari bacini di laminazione. A cominciare da quello di Caldogno (Vicenza) e di Montecchia di Crosara (Verona). Sono grandi vasche in cui convogliare le acque in eccesso dei fiumi. Golene realizzate grazie a fondi di emergenza: 3,5 miliardi. Vale a dire che l’investimento di tutela preventiva è costato meno dei danni stimati (!) di questa doppia bomba d’acqua che flagella l’Emilia Romagna, ha costretto a scappare 50mila persone dalle proprie case e aziende e messo in ginocchio la meals valley italiana. I dati forniti dalla Regione Veneto parlano chiaro: bisogna pensarci prima. I quattrini ci sarebbero (solo il Pnrr prevede miliardi di fondi mirati). E poi si sono anche i fondi europei “ordinari”. Il 27 maggio 2014 nasce sotto il “regno Renzi” il fondo nazionale “Italia Sicura” da 8,5 miliardi. Affidato a una struttura dedicata a Palazzo Chigi. Possiamo constatare oggi come sia andata a finire.

 

 

Poi certo ci mette del suo la mano dell’uomo, la cementificazione selvaggia, la resistenza agli interventi di esproprio. Le golene in Emilia non sono una novità. Basta aver visto uno degli imperdibili movie della serie Peppone e Don Camillo per ricordare quello che può fare il Grande Fiume. Nella Bassa gli argini sono spesso in terra battuta. Certo la siccità degli ultimi mesi ci ha messo del suo e ha fatto il resto. Senza le piogge autunnali ed invernali la terra diventa cemento. E non è solo colpa dell’uomo o dell’asfalto. Veneto, Lombardia e Emilia Romagna hanno sgraffignato per favorire l’industrializzazione, migliaia di ettari di terra. Casa, casali, stalle riattate a capannoni, infrastrutture mal pensate e peggio costruite hanno dato una mano a Giove Pluvio. Il più sempliciotto dei contadini spiega che le gocce rimbalzano quando la terra è arsa. La pianura si trasforma in uno scivolo dove l’acqua viaggia veloce. Devastando.

TERRENI IMPERMEABILI
E se la terra non assorbe, se gli alvei dei fiumi non vengono ripuliti, se si costruisce dove non si dovrebbe per buon senso (se non per legge), giocoforza salta fuori un pasticcio. O una tragedia. Fin qui le responsabilità di una classe politica locale che ha trascurato, ha rinviato, ha fatto spallucce. Poi, però, basta andare a caccia dei vari piani di recupero del suolo (2013), della Riduzione del rischio idrogeologico (2018), del piano piccoli invasi. «Progetti pronti e cantierabili», scandisce Massimo Gargano, direttore generale di Anbi, che da anni si batte. Inascoltato da una manciata di governi, ministri, presidenti di regioni, assessori e commissari straordinari. C’è solo da augurarsi che sia questa la volta buona. Ma forse basterebbe solo un forcone per pungolare la memoria alla nostra classe dirigente… 

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